L’Alba della Legalita 2015. Conosciamo l’imprenditore Giuseppe Carini

legalitada “La vita negata del testimone di giustizia. Intervista a Giuseppe Carini. Grazie a lui puniti gli assassini di Don Pino Puglisi” pubblicato sul sito  vittimemafia.it
Il 15 Settembre del 1993 nel quartiere Brancaccio di Palermo cadeva sotto il fuoco della mafia, Padre Pino Puglisi. Era il giorno del suo 56° compleanno. Durante le prime indagini, gli inquirenti erano disorientati. Si pensava che il sacerdote potesse essere un informatore della polizia o che si trattasse addirittura di un tentativo di furto. Nessuno pensava che la criminalità siciliana potesse arrivare a tanto.
La verità veniva fuori solo grazie alla testimonianza di Giuseppe Carini. Un ragazzo di soli 25 anni che nel suo quartiere natale, feudo di Michele Greco, frequentava la parrocchia di San Gaetano, dove il prete assassinato insegnava il significato della legalità ad un gruppo di ragazzi, per allontanarli dalla strada.
Padre Puglisi veniva ucciso perché le sue coraggiose parole disturbavano le attività di Cosa Nostra. Dei fratelli Giuseppe e Filippo Graviano, mandanti del brutale omicidio. Entrambi condannati all’ergastolo. Carini raccontava tutto ai magistrati, Luigi Patronaggio e Lorenzo Matassa: le minacce subite sulla propria pelle, le botte e gli incendi intimidatori nelle case degli amici dell’Associazione Intercondominiale, del quartiere palermitano. Una scelta coraggiosa, a sacrificio della propria vita, in nome della giustizia e dello Stato. La stesso che oggi sembra averlo abbandonato.
Al tempo dell’omicidio aveva solo 25 anni, perché ha deciso di testimoniare?
“Innanzitutto la voglia di riscatto del mio quartiere e della mia persona. Con padre Puglisi abbiamo conosciuto il rispetto della dignità, della propria vita e di quella degli altri. Non ci arrendevamo a vivere in un quartiere dove ogni cosa era vista solo come la ‘concessione di un favore’ e non come un ‘diritto’ sociale. La mia scelta di collaborare è stata una scelta di diritto. Il diritto che i mandanti e gli assassini fossero condannati”.
Dopo la testimonianza, le offrirono di entrare in un programma di protezione speciale. Di cosa si trattava?
“Consisteva nel trasferimento in una località protetta. Un programma di protezione mirato solo a nascondere una persona, senza alcuni progetto concreto che prevedesse il ritorno ad una vita normale. Una morte civile e sociale. Ho vissuto per quattro anni in piccoli paesini della Toscana e del Piemonte. Ti mettevano dentro un appartamento e buona notte. Il sussidio mensile non era sempre sufficiente. Insomma, tutto sembrava un semplice occultamento di testimoni. E una volta fuori, arrivederci e grazie”.
Cosa vuol dire: arrivederci e grazie?
“Vuol dire che fanno una capitalizzazione, di danno dei soldi per mantenerti i primi tempi. Ma non capiscono che il vero problema non è il denaro. Il problema è che sei tagliato fuori. Senza un lavoro che umanizza e aiuta a creare legami stabili o che ti permetta di comprati una casa. A Palermo studiavo medicina e chirurgia. Non sono mai riuscito a riprendere gli studi. Non ero nelle condizioni di poterlo fare”.
Mi aiuti a capire meglio, lo Stato non le ha trovato un lavoro e neanche dato la possibilità di formarsi, cosa è successo quindi alla fine del programma di protezione?
“Per trovare lavoro mi sono rivolto ad una agenzia di cerca lavoro temporaneo. Lo stato se ne è ‘strafregato’. Oggi vivo nel nord Italia. Ho un’altra identità e lavoro per una cooperativa sociale”.
Oggi lei ha 38 anni, un lavoro, è inserito socialmente ma dice di sentirsi ‘civilmente morto’. Cosa vuole dire?
“Sono stato tenuto chiuso dentro qualcosa più grande di me che in qualche modo mi ha mortificato. Come testimoni pensiamo di potere dire alla gente tante cose. Di spiegare il valore del coraggio di parlare e di denunciare. Vorremo avere sicurezza nelle istituzioni. Ma non riusciamo”.
E’ mai ritornato dopo la testimonianza a Palermo? Ha avuto modo di rivedere i suoi genitori?
“No, non sono più tornato a Palermo. Non torno perché non ci sono le condizioni di sicurezza per il mio rientro. Una volta partito da Palermo i rapporti con i miei familiari sono finiti. Loro non hanno condiviso la mia scelta e hanno rinnegato il nostro legame di parentela. Forse hanno paura di ritorsioni. Ho anche dei fratelli che non sento più. Mi sono serviti tredici anni per accettare la realtà dei fatti”.
Carini, oggi rifarebbe la stessa cosa? Testimonierebbe ancora?
“Penso di si. Sarei solo più cauto e starei più attento ai miei diritti”.